III

PRECEDENTI DI POESIA NON IDILLICA

È facile costatare che nel lungo periodo fino al ’30, culminato nel Canto notturno e nelle correzioni dell’edizione Piatti uscita all’inizio del ’31 e prima del Pensiero dominante, la tendenza generale della poesia leopardiana sale verso la poetica idillica e certamente passi dello Zibaldone e abbozzi portano, anche entro le romanticissime polemiche antiromantiche, a quel tipo di poesia in cui resiste un’ultima grazia di Arcadia: e un suggerimento preromantico[1] ritorna nelle cadenze dolenti e nostalgiche dei grandi idilli. Pure se il segno cui tende la complessa formazione poetica leopardiana fino al ’30 è certamente il tono idillico, non si può d’altra parte negare la presenza di altri atteggiamenti a volta a volta realizzati od eliminati o rimasti come esperienze non perfette, come indici di approfondimento che possono trovare uno sviluppo superiore nella poetica cosí diversa degli ultimi canti.

Ho accennato già al tentativo del Vossler di ridurre la poesia leopardiana ad una pluralità di motivi e di momenti non cronologici, riunendo ad esempio la poesia degli ultimi canti e quella giovanile in due motivi: poesia eroica e meditazione lirica, ripresa di alcuni accenni carducciani in uno svolgimento di cronologia ideale.

Ma veramente l’avvicinare poesie diverse come All’Italia e Pensiero dominante, Sopra il monumento di Dante e Amore e Morte lascia molto perplessi anche se il critico tedesco suddivise poi quei momenti in altre sezioni di indice contenutistico: amore e morte, gloria e patria. Quale relazione fra una poetica nutrita di Testi, Chiabrera, Filicaia, una poetica di «efficacia» e una poetica che presuppone la piú pura partecipazione personale al di sopra di ogni volontà oratoria e pratica?

Ed anche nelle canzoni storico-culturali del ’21-22 non molto piú che una impostazione genericamente energica può far pensare alla nuova poetica: certi pigli risoluti, molto alfieriani (e proprio caratterizzati piú come residuo alfieriano che come tono originale, nativo: «o miseri o codardi / figliuoli avrai. Miseri eleggi» – Nelle nozze della sorella Paolina), o certi echi pariniani, foscoliani e secenteschi mescolati a spinte originalmente leopardiane. E il vigore che qua e là compare («Spiace agli Dei chi violento irrompe / nel Tartaro») è ancora piú letterario che poetico (“piú grandezza di parole che di cose” è il giudizio del Vossler sul Bruto minore), come la tinta brunita e solenne dell’Ultimo canto di Saffo trova il suo limite nel suo valore piuttosto archeologico. E se sotto vibra uno sforzo di unità pensiero-poesia e l’accenno a musiche piú potenti, a intuizioni vitali piú possedute dall’intimo, piú convinte e perentorie

(Sottentra il morbo e la vecchiezza e l’ombra

della gelida morte)

questi spunti non idillici non riescono a persistere isolati e fuori di un piano largamente retorico come punti di riferimento sicuro ad una nuova poetica.

Piú importanti in questo senso sono gli accenni che si trovano nella canzone Alla sua donna e nel Coro dei Morti. La prima è del ’23, il secondo del ’24, nel periodo di crisi poetica e quasi di sfiducia nel tipo di lirica fino allora accettata. Crisi del mondo aulico delle canzoni come esperienza troppo culturale e letteraria, crisi del mondo idillico non ancora incentrato nel motivo vitale della ricordanza.

Nella prima si affaccia un’esigenza di poesia non idillica non per immaturità, ma per bisogno di quel tono religioso di affermazione personale che qui tende con fare alleggerito e stilizzato a forme che piú tardi saranno assunte con ben altro vigore. «Tale ascesi (dice il Vossler)[2] ed autotormento costituisce il lato eroico della poesia; certo un eroismo senza oggetto terreno, un esercizio preliminare per i casi che potranno forse incorrere e che piú tardi specialmente nell’amore per la Targioni Tozzetti si faranno della piú amara serietà».

Sul limite della prosa delle Operette, quasi commiato dalla poesia, Alla sua donna vive in una situazione originalissima fra controllo perfino ironico, bisogno di toni religiosi ed arcani. Certo continua si avverte la cura di non abbandonarsi, di tagliare ogni effusione con un posarsi vigile di parole guardinghe, quasi ironiche, estremamente coscienti della loro funzione, con mosse fra auliche ed indugianti, con perifrasi estremamente preziose in un tessuto cosí sottile, con questi membri snelli, aerei e percorsi da una attenta logica costruttiva. Ma dentro questa struttura di eleganza estrema e quasi paradossale si muovono diverse tendenze tra cui non manca un movimento idillico ai versi 34-41:

Per le valli, ove suona

del faticoso agricoltore il canto...

Piú importante per noi è la costatazione di alcuni elementi fondamentali di questa canzone: soprattutto l’affermazione di un valore superiore alla realtà circostante, anche se questo valore appare del tutto ipotetico come esistenza e velato da un alone di mito sentimentale:

E potess’io,

nel secol tetro e in questo aer nefando,

l’alta specie serbar; che dell’imago

poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.

Disprezzo della realtà bassa e adorazione del valore intimo unificati in un piglio di certezza personale vivo in una stringatezza ferma e perentoria a cui dové ripensare il Leopardi dei nuovi canti. E una certa somiglianza con i nuovi canti deriva da questa impostazione affermativa nella costruzione ben distaccata, in cui ogni strofa porta un suo contributo ben definito, si lega alle altre per uguale urgenza di ritmo iniziale: pur ricordandoci che qui l’aria in cui queste mosse si presentano è sempre un’aria sottile, vitrea, capace di raggelare ogni violenza anche nel suono ironico dei distici finali:

e teco la mortal vita saria

simile a quella che nel cielo india.

Non una decisione per una poesia che preannunci senz’altro quella dei nuovi canti, ma spunti interessantissimi di un atteggiamento non idillico non per incoerenza, ma per esigenze che altrove diverranno centrali e potenti.

Piú solitario e quasi sconcertante nello sviluppo del Leopardi prima del periodo dei grandi idilli è il Coro dei morti che apre il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Sconcertante appunto se guardato da un punto di vista crociano (poesia e non poesia) da cui anche un critico aderente come il Fubini[3] poté conciliare la sua sensibilità e la domanda crociana: «È poesia intellettuale che nasce dalla speculazione ed ignora ogni immagine: eppure non è un raziocinio in versi, ché in quella speculazione è impegnata non meno la fantasia che l’intelletto». Giudizio però che accenna a quella tendenza unitaria leopardiana che troverà giustificazione e coerenza nei nuovi canti, ma qui mostra già la sua originalità.

Un critico intellettualistico come Adriano Tilgher in un saggio intitolato Esperienze numinose in cui collegava Infinito, Vita solitaria (nella seconda parte) e Coro dei morti come esperienze di teologia negativa e di assoluto, al di sopra della sua tesi generica (e piú vera per ciò che riguarda il tono che non un preciso contenuto religioso), considera il Coro come «la piú bella senz’altro delle poesie leopardiane, il vertice della sua produzione poetica, il SUO capolavoro»[4] e lo avvicina a For Annie di Poe, cita Schopenhauer e Heidegger come punti impliciti di riferimento di una storia in cui certo Leopardi è collocabile assai meglio che in quella di uno sviluppo idealistico. Tentativo di storicizzazione del romanticismo leopardiano e accertamento di una originalità di questo Coro sublime in cui ogni precedente esperienza leopardiana e tutta la tendenza idillica sembrano superate da una impostazione fra religiosa e implacabilmente gelida (non mitica ed elegante o baroccamente biblica come nel Cantico del gallo silvestre), estremamente personale e insieme come dotata di una superiore obbiettività veramente corale.

C’è un legame evidente con Alla sua donna, ma qui il limite di eleganza ironica è trasformato in una superiore ambiguità assorta e solenne. Si può osservare che la condizione di esistenza che il Leopardi vuole rappresentare in poesia è ben lontana dall’appassionata tensione che giustifica la nuova poetica, tanto che nel Coro si afferma la superiorità del puro «esistere» al di sopra della passione vitale

(Cosí d’affanno e di temenza è sciolto)

e si realizza con mezzi poetici profondissimi l’ideale vita dei morti senza tenerezza, senza «speme e disio» e «senza tedio», una vita dunque «nirvanica» in cui il Leopardi realizza una sua aspirazione[5] e tocca il punto piú profondo della sua esperienza precedente il nuovo periodo.

Ma d’altra parte quel senso cosí raggiunto di presenza di sé a sé, quel possesso di sé cosí assoluto nel nuovo Leopardi si affaccia in qualche modo piú momentaneo anche nella vita dei morti: senso di sé profondissimo, essenziale, precedente ad ogni moto sentimentale. Base di una esperienza vitale cosí unita di intelligenza e fantasia che giustifica fin d’ora la possibilità (si badi bene, la possibilità) di una poetica unitaria antiedonistica quale nessun romantico realizzò con tanto rigore.

Nuova è la fermezza con cui le parole nascono non in onda di canto, ma in legame segreto, quasi per le loro radici piú profonde, nuovo è il ritmo liturgico restio ad ogni dolcezza di immagine che non sia frutto di pure dimensioni interne

(e qual di paurosa larva

e di sudato sogno,

a lattante fanciullo erra nell’alma

confusa ricordanza...[6]),

nuova è la musica ricercata non per esemplificazione di sonorità, ma come intimo accordo di suoni e immagini interne.

Vennero poi le Operette (al cui fondo non mancano echi di questa impostazione energica ed assorta), venne il trionfo della poetica idillica che per tre anni intensi di altissima produzione non ammise deviazioni dalla sua linea di calore risolto totalmente in canto, di armonia conclusa e nostalgica.

Ebbene, nel cammino sicuro della tendenza alla poetica idillica le due poesie a cui abbiamo accennato significano un momento eterogeneo, l’esigenza di una diversa poetica e certamente nella costruzione dei nuovi canti la loro presenza fu calcolata ben piú di quella delle canzoni patriottiche o culturali.


1 Si veda in proposito per una presenza specialmente ossianesca il mio saggio: M. Cesarotti e il preromanticismo italiano, Firenze 1942. [Poi in Preromanticismo italiano, Napoli, Esi, 1947; Bari, Laterza, 1974].

2 K. Vossler, Leopardi, trad. T. Gnoli, Napoli 1925, p. 263.

3 Operette morali, a cura di M. Fubini, Firenze 1933, p. 193.

4 A. Tilgher, Filosofia di Leopardi, Roma 1940, p. 157.

5 Si veda Zibaldone, 21 ottobre 1820.

6 Si ricordi lo hölderliniano «schicksallos wie der schlafende Säugling».